The social body

Via l’imbarazzo, l’esitazione, via qualsiasi forma di attesa, via i primi sguardi, le prime impressioni, l’immaginarsi un futuro molto vicino che forse non arriverà mai. Si sta un po’ come in un centro commerciale la domenica pomeriggio, o come in quel film di tanti anni fa, seduti, con in mano il binocolo, pronti a osservare tutto quello che accade fuori dalla nostra finestra, per commentarlo, per farsi un’idea da lontano. Rifarsi una vita, sui social network, significa vivere per finta, vivere pensando che tutto quello che vivrai dovrai farlo sapere a qualcuno, e quel qualcuno dovrà approvare, mettendo un mi piace e nel migliore nei casi commentando con qualche complimento standard preconfezionato. Significa non capire più cosa voglia dire la condivisione, che nel mondo di fuori è qualcosa che si fa insieme, con gli altri, ma sui social network ci fa sentire ancora più soli. Oggi che manca il tempo, che le giornate sembrano sempre più corte, che noi sembriamo sempre più distratti, anche se non si sa bene da chi o da cosa, quello che conta è attirare l’attenzione, impressionare, far sì che tutto quello che postiamo risulti diverso, inaspettato, o semplicemente più bello rispetto a quello che postano gli altri. È una sorta di piccola gara silenziosa, dove contano la fortuna, le coincidenze, sì, ma soprattutto la natura. Qualcuno ha detto che questa è la generazione dei Pollicini e delle Pollicine, perché siamo sempre così curvi, un po’ come delle virgole, a guardare quei piccoli schermi luminosi e a farci scorrere su i nostri pollici, ad aggiornare la home, che qui non significa casa, sperando che gli altri si siano finalmente accorti della nostra esistenza. Ma intorno a qui pollici c’è il nostro corpo, la nostra faccia bella, pulita, sorridente, appena lavata, appena sveglia, appena insaponata, nel bel mezzo di una doccia, o colorata, davanti a una libreria piena di romanzi che non ci appartengono, che non abbiamo letto, che forse non leggeremo mai. Ecco, quella faccia, quel corpo che s’intravede appena, che comincia, che fa intendere, è l’unica occasione che abbiamo perché qualcuno ci scelga, si faccia avanti, si convinca che noi potremmo diventare la sua nuova bellissima distrazione, che ci corteggi con una richiesta d’amicizia, poi con qualche mi piace, con dei commenti sobri, qualche smile, per poi scriverci in privato, per dirci che sembriamo delle persone interessanti, diverse, tanto diverse dalle altre, che è quella l’unica ragione per cui ci ha scritto, la nostra faccia in quella foto, il nostro corpo che fa intendere, non c’entrano nulla, non hanno nessuna importanza. Chi ha il coraggio di scriverci in privato, di farsi avanti, senza muoversi, ci dice che non ha mai fatto caso all’aspetto fisico, che non è così superficiale, e noi non sappiamo se crederci o meno, anche perché dicono tutti così. Noi, proprio noi, che quella foto l’abbiamo immaginata per giorni, prima di pubblicarla, che abbiamo sorriso pensando a tutti i mi piace che sarebbero arrivati in pochi minuti, ai commenti, agli approcci invisibili. Noi, che abbiamo avuto una seconda chance, che agli amori dal vivo, quelli dove si sente il respiro dell’altro, abbiamo preferito quelli platonici, quelli dove non ci si può fare poi così male, perché il più delle volte si fermano un attimo prima di nascere. Noi, che non volevamo altro che qualcuno ci scrivesse per quello, per quella foto, per il nostro aspetto, per quello che appare, perché siamo belli, lo sappiamo, anzi no, non lo sappiamo affatto. “A cosa stai pensando?”, ci chiede facebook prima di pubblicare la nostra foto. La verità è che pensiamo solo una cosa, che saremo belli finché gli altri ci vedranno belli.